Il consolidamento del Fallimento di Oslo
Segue il testo di una lettera aperta firmata in Palestina da 130 intellettuali, artisti e personalità del mondo accademico presenti nel paese o all'estero, molti dei quali avevano sostenuto, nel passato, gli accordi di Oslo.
La loro azione intende chiarire i motivi della loro scissione dal "processo di pace" che ritengono stia portando verso il disastro. Il Centro di Informazione Alternativa ha pubblicato la lettera a Haaretz grazie alla firma di 130 Israeliani che si sono dichiarati d'accordo con essa.
Messaggio ai Lettori Israeliani ed Ebrei
Noi, intellettuali Palestinesi firmatari, rivolgiamo ai lettori Israeliani ed Ebrei questo messaggio per chiarire la nostra posizione riguardo il processo di pace in corso.
Siamo convinti che l'accordo in corso di definizione non porterà alla pace, ma porta in sè il seme delle guerre future.
Come noi, la maggior parte del popolo palestinese pensava che fosse arrivato il tempo di concludere con gli Israeliani un accordo storico che ci avrebbe permesso di vivere insieme, finalmente in pace, sulla stessa terra, nonostante le ingiustizie, le sofferenze e gli abusi inflitti per decenni al nostro popolo dallo stato Israeliano.
La maggior parte dei Palestinesi credeva che la pace sarebbe stata costruita su due principi: la giustizia e la necessità di un futuro comune.
Quello di cui siamo testimoni è in realtà molto lontano da questi principi.
Tra le parti in conflitto una crede che l'attuale equilibrio delle forze sia in suo favore, e questo può imporre una condizione umiliante all'altra parte, forzandola virtualmente ad accettare qualunque proposta è costretta ad obbedire. L'accordo storico è diventato un accordo tra Israeliani, non un accordo con i Palestinesi.
È un accordo che soffoca il popolo Palestinese dal punto di vista umano perchè non tiene conto dei loro diritti umani e storici; territoriale perchè li isola nelle zone delimitate in città e villaggi mentre progressivamente ne confisca le terre: dal punto di vista della sicurezza perchè pone apriori, come principio fondante, la sicurezza di Isreale al di sopra dei diritti dei Palestinesi di esistenza e sicurezza; politicamente perchè impedisce ai Palestinesi di decidere il loro futuro e di controllare i loro confini.
Nel dire ciò riteniamo di esprimere le più profonde convinzioni del nostro popolo che chiede di avere un confronto reale ed aperto su queste realtà.
Gli Israeliani ed Ebrei dovranno scegliere tra un accordo imposto da un equilibrio di forze spudoratamente a favore del vostro governo e dei vostri militari, e un altro giusto, che potrebbe favorire Israeliani e Palestinesi e che porrà le basi per una vita comune a lungo termine sulla stessa terra. La scelta è nelle vostre mani.
Noi intellettuali palestinesi affermiamo, in tutta chiarezza, che ci sono solo due soluzioni per risolvere in modo giusto la questione palestinese. La prima soluzione è la creazione di uno stato Palestinese con sovranità assoluta sulle terre occupate da Israele nel 1967 e Gerusalemme come capitale, il diritto di ritorno per i rifugiati palestinesi, e il riconoscimento del governo di Israele della storica ingiustizia inflitta al popolo palestinese. Lo stato palestinese nascerà dai principi democratici e umanisti adottati con la Dichiarazione d'Indipendenza Palestinese nel 1988. La seconda soluzione è la creazione di uno stato democratico a doppia nazionalità per i due popoli che vivono sulla storica terra di Palestina.
È chiaro che il negoziatore palestinese, le cui mani sono legate dallo schiacciante equilibrio del potere che lavora contro di lui, potrebbe essere costretto ad accettare un accordo umiliante e degradante che non porterebbe a nessuna di queste due soluzioni. La storia abbonda di esempi di nazioni costrette con la forza ad accettare decisioni che hanno finito di essere una catastrofe per tutte le parti in causa.
Questo messaggio è rivolto, prima e soprattutto a quegli Israeliani che credono nei valori della giustizia e dell'equità, e a tutti coloro che aspirano alla pace nel mondo. A loro diciamo che la soluzione che la leadership d'Israele sta cercando di imporre al negoziatore palestinese potrebbe non essere un accordo con il popolo palestinese. Sarà un accordo fragile che porta in sè i semi della sua stessa distruzione.
Noi non lo sosterremo nè lo accetteremo.
Vi porgiamo le mani per fare una pace reale e giusta, ma non la pace dei militari e della coercizione, non la pace dei generali.
Edit:
postato perchè l'inizio della II Intifada segnò la fine e il fallimento degli accordi di oslo (ricordate la provocazione di ariel sharon di andare il venerdì -giorno della preghiera nel mondo mussulmano- alla spianata di gerusalemme, con conseguente sparatoria sulla popolazione)
é importante ricordare anche (come faceva MaD) che Itzhak Rabin é stato ucciso da un giovane del Likud il 04/11/95 (video)
II Edit:
L'omicidio rabin
Hamira Haas
Iigor Man
tesi di laurea da -studi per la pace-
I recenti sviluppi della crisi israelo palestinese alla luce del diritto internazionale.
Tesi di laurea
Anno Accademico 2001-2002
interessante e utile
"Il Governo dello Stato di Israele ed il team dell'OLP, il quale rappresenta il popolo Palestinese, concordano che è tempo di porre fine ai decenni di scontri e conflitti , riconoscono reciprocamente i loro diritti legittimi e politici, e si impegnano a vivere in coesistenza pacifica e in mutuo rispetto e sicurezza e a realizzare una pace giusta, duratura e completa e una riconciliazione storica mediante il processo politico concordato...". (Yitzhak Rabin - Yasser Arafat, Dichiarazione dei principi, 13 settembre 1993)
Il fallimento di al Fatah
Il fallimento di al Fatah
Ha'aretz
24 Novembre 2002
Amira Hass
Fra i Palestinesi il movimento di al Fatah è noto per essere un "supermercato" - un miscuglio di ideologie con una varietà di orientamenti sociali e comportamentali.
Gente di destra e di sinistra, religiosi e laici, gente che sostiene il diritto al ritorno e gente che vi ha rinunciato, gente incredibilmente ricca e altra disperatamente povera, adulatori e critici, alti funzionari che a proposito di Israele, parlano ancora di "entità sionista" e credono nella soluzione di uno stato unico (in cui gli Ebrei costituirebbero una minoranza tollerata) ed altri che sono amici dei sionisti e sognano due stati che vivano fianco a fianco intrattenendo rapporti cordiali.
Finché l'obiettivo comune è raggiungere l'indipendenza, dicono i membri di al Fatah, questo stato confuso di cose può sussistere.
Ma quando si tratta della libertà che alcuni membri del movimento si prendono con l'uso delle armi, si va oltre l'attraente folklore di un caos ideologico.
L'uccisione di cinque civili israeliani nel kibbutz Metzer da parte di un membro dell'ala militare di al Fatah ha dimostrato una volta ancora come i gradi superiori ed intermedi di al Fatah non abbiano un controllo effettivo su coloro che portano un fucile in nome di al Fatah.
Contrariamente al sistema decisionale centralizzato dell'Hamas e della Jihad islamica, nel movimento al Fatah di Yasser Arafat tre ragazzetti qualsiasi si possono mettere insieme, decidere di essere una cellula militare e portare avanti questa o quest'altra "operazione", qualche volta "rispondendo" all'appello dei loro capi di non oltrepassare la Linea Verde, altre volte andando oltre la linea.
E' possibile che ottengano il permesso da questo o quest'altro ufficiale di al Fatah del loro quartiere, ma si permettono di intraprendere azioni in palese contraddizione con la logica e il buonsenso della campagna diplomatica dell'Autorità palestinese, il cui obiettivo è di ottenere il sostegno attivo dell'occidente per una soluzione che conduca al ritiro di Israele dai territori occupati nel 1967.
Da una parte si permettono di minacciare quelli che criticano Arafat, dall'altra di strappare dei presunti collaboratori dalle mani della polizia palestinese per ucciderli.
Molti e ben noti attivisti di al Fatah sono disgustati dal comportamento criminale mascherato da lotta nazionale delle Brigate Martiri Al Aqsa.
Negli ultimi due giorni, coloro che hanno provato a pronunciarsi apertamente contro l'attentato hanno ricevuto la solita logora risposta di giustificazione: i nostri bambini non sono assassinati nei loro letti? Che importanza ha se sono uccisi da un proiettile o da una bomba, e non da un fucile?
Le bombe israeliane non lasciano vedove e orfani fra noi? Non sono stati proprio gli israeliani a cominciare a sparare, il 29 settembre 2000, prima che al Fatah cominciasse a reagire contro i loro civili? Qualcuno forse si accorge della nostra sofferenza ai check-points? E la nostra umiliazione per colpa dei soldati?
Evidentemente le caratteristiche criminali ed infantili del comportamento dei giovani armati di al Fatah, nei Tanzim, sono controbilanciate agli occhi dell'opinione pubblica palestinese dal fatto che sono percepiti come persone che rispondono con le armi ad una sofferenza collettiva.
Ma il braccio armato di Hamas e della Jihad lo fanno meglio, perché la loro leadership ha deciso una politica chiara, e incoraggiano apertamente gli attentati di massa contro i civili israeliani. Così i giovani di al Fatah e i loro capi si ritrovano in concorrenza interna con le altre organizzazioni palestinesi. Questa concorrenza determina le loro "decisioni" nell'utilizzare le armi più della politica dichiarata dal loro capo, Arafat.
Nessun palestinese dissente con il noto argomento degli altri movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo che il vero terrorismo è quello dell'aereo da guerra che lancia le bombe. Ma ci sono abbastanza attivisti di al Fatah - che hanno mantenuto il loro lavoro negli apparati civili e militari dell'Autorità palestinese - che si sono convinti che la lotta di liberazione nazionale non si può unicamente fondare sulla sete di vendetta ma che deve essere abbastanza ragionevole da prendere in considerazione i fattori esterni, e non soltanto quelli interni. Ma sembra chiaro che il fallimento degli argomenti basati sulle ragioni pratiche abbia come esito che anche le questioni morali non siano ascoltate.
I ricercatori universitari forniranno sicuramente molte risposte sul perché questi militanti abbiano lasciato che i gruppi armati agissero in nome loro imponendo una politica così disastrosa.
Dopo tutto, non si può incolpare unicamente la personalità di Arafat e la scarsa qualità della sua evanescente leadership. Una risposta è stata data recentemente da un membro importante di al Fatah a Gaza, che ha personalmente tratto profitto dai beni di conforto elargiti a lui e a tutti quelli della sua classe per il loro sostegno agli accordi di Oslo: "Grazie ai Martiti di Al Aqsa, non ci uccidono" ha ammesso con franca onestà.
"Grazie alla loro esistenza noi restiamo in vita".
Era un'allusione indiretta al fallimento dell'impegno di Oslo.
In altri termini, la leadership di al Fatah ha fallito nel proporre un piano chiaro e logico di campagna politica per l'indipendenza, quando è diventato palese oltre ogni possibile ombra di dubbio che l'occupazione israeliana non sarebbe terminata facilmente, perché l'Autorità palestinese ha trovato difficile rinunciare ai benefici legati al fatto di essere un'organizzazione dominante sotto gli auspici di Oslo. La leadership di al Fatah non ha osato esigere l'obbedienza dei suoi membri del movimento di liberazione nazionale e proibire metodi che sono "popolari" a scopo di vendetta, ma che danneggiano nel lungo termine, perché il fallimento di al Fatah come regime di governo ha deluso la maggioranza del popolo palestinese.
Il Sionismo nostrano invoca la “soluzione finale”
Il Sionismo nostrano invoca la “soluzione finale” di Andrea Franzoni
Per capire i proclami violenti di alcuni leader arabi, tra l’altro spesso decontestualizzati o tradotti ad hoc per rinforzare l’idea di “islamico cattivo”, non è necessario andare troppo lontano. Non è nemmeno necessario scomodare l’antropologia, le presunte culture né tanto meno la religione. Di fronte all’odio, alla propaganda, al razzismo e alla guerra, purtroppo, non c’è infatti cultura, valore o benessere che tenga.
E’ finito il tempo di credere alle favole, all’arabo che cova odio tra la polvere aizzato da una religione inumana, grezza, che odia la vita stessa e predica la distruzione e la notte. Le stesse parole, gli stessi proclami, la stessa assenza di pietà la possiamo trovare anche altrove, nei popoli apparentemente più civili e operosi, tra delicate opere d’arte e frizzanti elezioni democratiche. La stessa pasta, della quale tutti gli uomini sono fatti, emerge più che mai quando l’odio prende il possesso degli uni e degli altri. Dei palestinesi scalzi e disoccupati, come degli ebrei colti e benestanti.
Nel reciproco inneggiare ai propri diritti e alla propria superiorità, nel reciproco inneggiare all’altrui distruzione, si frantuma ogni presunta superiorità culturale e razziale. Noi come loro, loro come noi. Stessa pasta maledetta, stessi limiti mentali, stesse parole.
«Basta parlare di pace con i redivivi nazisti e facciamo pagare carissimo a loro ogni dito alzato» commenta Antimo Mirandola, direttore e columnist del periodico di informazione e cultura “Ebraismoedintorni.it”. Comodamente seduto davanti ad un computer, probabilmente nella redazione romana della rivista, aizza i suoi simili alla guerra, alla disumanizzazione e all’odio, come il più caricaturale dei mullah.
«Sappiano che ogni loro velleità gli costerà un prezzo insostenibile andando dritti al cuore del problema distruggendo, una volta per tutte, ogni arma, compresi i tric trac, in mano ai nemici d’Israele, che siano a Beirut, a Damasco o a Teheran. Andiamo fino in fondo perché si possa poi vivere finalmente in pace. Siamo “sproporzionati”? Ebbene accontentiamo questo branco di bestie immonde che si permette di giudicare così un popolo che si difende e usiamo la forza “sproporzionata” per garantirci che nessun Israeliano venga più rapito, che nessun bambino “con la stella di David” salti in aria nella propria casa o in pizzeria, che nessun padre circonciso debba lasciare la sua famiglia per andare in guerra. Ma ricordiamoci anche di sputare in faccia quando incontreremo coloro che come sciacalli lottizzano la memoria e vengono a fare i commossi quando si commemora quello sterminio che i loro compagnucci di merende vorrebbero portare a termine».
Scompaiono dal campo i bambini, i ponti, le donne, gli uomini che –come gli israeliani- vogliono solo vivere la loro vita in pace, i 7 canadesi uccisi a Beirut, le centinaia di persone uccise a tradimento in qualche giorno di follia omicida forse anche premeditata, che costituiscono la stragrande maggioranza delle vittime. Dalle parole di questi uomini eleganti, ben nutriti, pettinati, istruiti, non traspare nulla di tutto ciò che si vantano di essere. Più che parole paiono versi, latrati, grugniti di rabbia. L’intolleranza, il razzismo, l’integralismo sono molto più vicini di quello che crediamo.
La stessa sindrome colpisce anche Deborah Fait, altra columnist, che stufa dei negoziati invoca una soluzione finale. «NO, Basta, Basta! Israele non deve più parlare di pace con questa gentaglia, non conoscono il significato di questa parola. Israele deve andare avanti fino alla fine questa volta perchè' Gamla è là ad esempio e non cadrà mai più. Saranno loro a cadere definitivamente perche' hanno ampiamente dimostrato di essere belve assetate di sangue, incapaci di fare altro che terrorismo, guerra e assassinii. Basta! Israele deve andare avanti fino alla fine questa volta. Non provate a fermarci, vigliacchi del mondo». Tutto scompare davanti agli occhi di Deborah: solo i “bambini con la stella di David” hanno per lei un senso, un valore, una dignità. Eppure “andare avanti fino alla fine” cosa significa, se non distruggere, occupare, uccidere indiscriminatamente; “terrorismo, guerra e assassinii”?
«Ricordiamo tutti i nostri fratelli caduti per rendere viva ogni giorno la presenza ebraica in Eretz Israel. -dice una macabra preghiera ispirata agli eventi recenti- Che ogni goccia del loro sangue innocente venga pagata sette volte dal nemico e da tutti coloro che lo aiutano». Sette volte, dieci volte, venti volte. Un ebreo vale sette arabi, come in passato dieci ebrei valevano un tedesco. Nulla ha meno senso delle disequazioni, quando si parla di vite umane. E fa forse ancora più paura quando, a pronunciare certi orrori, non sono guerriglieri un po’ ignoranti, assediati (fosse anche solo culturalmente) dall’occidente, poveri e senza prospettive, ma ebrei benestanti, tanto boriosi quanto evoluti, dalle loro calde poltrone romane. Che speriamo siano, all’interno delle loro comunità, almeno isolati.
Non manca, purtroppo, nemmeno chi inneggia a dio e alle profezie. Quello di Andrei Bereny, altro commentatore di “ebraismo e dintorni”, è un dio che distrugge e tifa per la guerra, l’uccisione di innocenti. Un dio personale, un dio ultrà. «Mi odierete ma vi dico: sono felice! Finalmente, finalmente c'è la guerra. Adesso abbiamo un'opportunità per vincerla, un opportunità di distruggere Amalek, le sette nazioni, di adempiere le mitzvot, di essere ebrei non solo individualmente, ma come nazione. Mi dico, dunque, D-o mio, quanto Sei grande, quanto Sei onnipotente, quanto le Tue vie siano effettivamente e palesamente impossibili per noi da comprendere! L'ebreo non-ebreo eletto primo ministro ci ha promesso disengagement e ridisangagement, deportazioni e rideportazioni di ebrei dalle loro case in Terra d'Israele e adesso, suo malgrado, è rientrato a Gaza e sta rientrando in Libano, tutti territori biblici di Eretz Israel e forse, forse deciderà di distruggere i nostri nemici, hamas, hezb'allah, "PA", iran e siria. Come mai? Perché? Perché "non ha altra scelta!" D-o mio, quanto Sei grande, quanto Sei onnipotente, quanto le Tue vie sono effettivamente e palesamente impossibili per noi da comprendere! Buona guerra, Israele!».
Paolo Guzzanti, senatore di Forza Italia, non scomoda dio. Non è però affatto più tenero, ed esulta. «Buona guerra, Israele. Hai tutte le ragioni per spazzare via con l'uso legittimo delle armi i nemici che sono anche i nemici di un'Europa impantanata nelle sue stesse menzogne e già posseduta dalla penetrazione islamica. Ormai siamo sempre di più ad avere il coraggio di dire buona guerra Israele». Città distrutte, bambini sepolti, donne dilaniate, uomini e ragazzi annientati. La “guerra per raggiungere la pace”. Umiliare e distruggere un popolo, quello libanese, che ha vissuto anche grazie a Israele una guerra civile, 25 anni fa, e che si vede annientato per le ritorsioni contro le azioni di un gruppo armato paramilitare, nemmeno del legittimo esercito libanese (che d’altra parte non ha alcun peso). Di fronte a questi proclami, e a questo razzismo, scompare ogni presunta superiorità, ogni presunto diritto a guardare dall’alto in basso e a pretendere di esportare. Proclami che stupiscono per la maniera esplicita e primitiva con la quale esprimono gli istinti peggiori, ma che sono la punta dell’iceberg di un razzismo, di un disprezzo e di una disumanizzazione ben più subdola strisciante nei media e nella società.
Teste calde? Minoranze inconsistenti, legate più al folklore che alla politica? Oppure esponenti sinceri e onesti delle idee e dei sentimenti di tanti sionisti ebrei o non ebrei? Questa distinzione, che se parliamo della controparte musulmana è risolta in maniera razzista e semplicistica a priori, senza timore di smentita, andrebbe forse approfondita. Pensate cosa sarebbe successo se queste parole fossero state pronunciate da un musulmano italiano o da un esponente della "sinistra radicale". (Il titolo di questo articolo, non a caso, si basa sul rispetto della norma consuetudinaria contemporanea in fatto di titoli che generalizza e decontestualizza. Non prendetevela quindi con me, se il titolo [Il Sionismo nostrano invoca la “soluzione finale”] vi appare esagerato, ma con questa abitudine giornalistica che sto semplicemente rispettando.)
Di cosa dovremmo avere paura, veramente? Dell’arabo cattivo? Dell’ebreo (o meglio del sionista) cattivo?
Dobbiamo avere paura soltanto di noi stessi e delle forze oscure, pilotate dalla propaganda, che si annidano nelle viscere dell’uomo pronte a generare nuove Auschwitz, nuove Beirut, nuove Srebrenica, nuove Kigali. Nuovi mostri, che c’aspettano dietro l’angolo non appena qualcosa riesce a corrodere la nostra umanità, la nostra lucidità, il nostro amore per la vita e per la pace. Non appena il vicino diventa straniero, l’innocente colpevole, e gli occhi si annebbiano. Basta poco per trasformare il “colto” in belva, le questioni politiche e le cronache in generatrici di mostri. Centinaia di donne e bambini in vittime collaterali.
Nuovi mostri si riempiono la bocca di ragioni e di divinità diverse ma, nell’odio cieco e brutale, svelano quanto siamo tutti fatti di un’unica, debole ed imperfetta, pasta.
Andrea Franzoni
Si prega di visitare il sito www.ebraismoedintorni.it per leggere integralmente gli articoli ai quali si fa riferimento.
Comunità ebraica di Milano - Il testo della lettera aperta al Console Libanese
Sua Eccellenza Hassan Najem
Siamo qui a portarLe la nostra solidarietà. Il dolore che state vivendo è anche il nostro. I libanesi non meritano quanto stanno passando.
E pensare che tutto è cominciato per iniziativa di un singolo gruppo armato, fa ancora più rabbia.
Ma non dobbiamo perdere la forza del dialogo, e dobbiamo anzi sforzarci di riflettere sulle conseguenze delle iniziative belliche di singoli gruppi. Crediamo fortemente nella pace, e per questo crediamo che essa si avvicinerà quanto più il governo libanese riuscirà ad emanciparsi dalla presenza di Hezbollah.
Come del resto ha auspicato recentemente anche il nostro Presidente del Consiglio, e come richiesto dalla risoluzione Onu 1559 del 2004, Non esiste infatti stato pacifico che possa convivere con una forza militare alternativa all’esercito dispiegata sul proprio territorio.
Non esiste stato di diritto dove un gruppo di miliziani possa decidere di fare la guerra a un paese limitrofo senza neppure sentire il parere del legittimo governo.
Non esiste una simile situazione neppure nei paesi tanto amici di Hezbollah. Sia l’Iran che la Siria si guardano bene infatti dal lasciare milizie armate autonome sul proprio territorio.
Da qui bisogna partire se si vogliono evitare nuovi scontri e nuove sofferenze. Un cessate il fuoco senza il disarmo di Hezbollah rischierebbe di essere solo un intervallo fino ai prossimi scontri.
Siamo con voi, perché sia il popolo libanese a decidere del proprio futuro, sia esso di pace o di guerra, fiduciosi come siamo che, laddove sono le persone a scegliere, la pace possa avere la meglio.
Abbiamo sofferto con voi per l’uccisione del premier Hariri, così come abbiamo gioito con voi per il ritiro delle truppe siriane.
In nome della pace siamo qui a chiedere sostegno al vostro governo per le ricerche dei soldati israeliani rapiti, innocenti burattini di un gioco i cui fili vengono mossi a Teheran e a Damasco, ma le cui conseguenza pagano i libanesi tanto quanto gli israeliani.
Nella speranza che vogliate accogliere queste nostre parole di dialogo e di amicizia, sappiate che per noi è motivo di dispiacere il solo pensare che tra Libano e Israele non possano esserci normali relazioni diplomatiche. Sono troppe le cose belle che possiamo costruire con gli altri, per sprecarle in quell’orribile gioco chiamato guerra.
Nella speranza che presto giunga una pace definitiva e nella speranza che da essa possa presto nascere un mutuo riconoscimento, Le porgiamo i nostri migliori auguri.
A Lei e al suo Paese. Che la pace sia con voi.
Shalom.
Leone Soued (presidente della Comunità Ebraica di Milano)
Davide Romano (segretario ass. Amici Di Israele)
(speriamo che in futuro vengano prese iniziative simili, spese parole e si prenda posizione anche per i tanti libanesi che vengono sequestrati o tenuti in ostaggio dai sionisti - fra)
Edit:
Citazione:
Originariamente Scritto da Kurt Nimmo
Nessun riferimento qui alle centinaia di Libanesi tenuti illegalmente da Israele in prigioni che sono luoghi di tortura. Precedentemente, questo mese, il governo libanese
si è lamentato con il rappresentante del Segretario generale dell' ONU a Beirut per “la continua cattura di detenuti, e... le centinaia di persone scomparse, che si pongono come violazioni dei diritti umani”.
Israele
ha ammesso di rapire i Libanesi per scopi politici, ma per qualche ragione questo fatto non è citato dai media delle corporation. Nei tardi anni '90, prima che Israele fosse sfrattato da Hezbollah dal Libano del Sud, era pratica comune per Israele rapire Libanesi completamente innocenti e trattenerli come “fiches da contrattazione”, cioè non trattenendoli, secondo
Amnesty International, “per le loro loro azioni, ma come scambio per soldati israeliani dispersi o uccisi in Libano”. Come al solito, questi fatti vengono ignorati dal nostro governante designato e dai media delle corporation.