Il consolidamento del Fallimento di Oslo
Segue il testo di una lettera aperta firmata in Palestina da 130 intellettuali, artisti e personalità del mondo accademico presenti nel paese o all'estero, molti dei quali avevano sostenuto, nel passato, gli accordi di Oslo.
La loro azione intende chiarire i motivi della loro scissione dal "processo di pace" che ritengono stia portando verso il disastro. Il Centro di Informazione Alternativa ha pubblicato la lettera a Haaretz grazie alla firma di 130 Israeliani che si sono dichiarati d'accordo con essa.
Messaggio ai Lettori Israeliani ed Ebrei
Noi, intellettuali Palestinesi firmatari, rivolgiamo ai lettori Israeliani ed Ebrei questo messaggio per chiarire la nostra posizione riguardo il processo di pace in corso.
Siamo convinti che l'accordo in corso di definizione non porterà alla pace, ma porta in sè il seme delle guerre future.
Come noi, la maggior parte del popolo palestinese pensava che fosse arrivato il tempo di concludere con gli Israeliani un accordo storico che ci avrebbe permesso di vivere insieme, finalmente in pace, sulla stessa terra, nonostante le ingiustizie, le sofferenze e gli abusi inflitti per decenni al nostro popolo dallo stato Israeliano.
La maggior parte dei Palestinesi credeva che la pace sarebbe stata costruita su due principi: la giustizia e la necessità di un futuro comune.
Quello di cui siamo testimoni è in realtà molto lontano da questi principi.
Tra le parti in conflitto una crede che l'attuale equilibrio delle forze sia in suo favore, e questo può imporre una condizione umiliante all'altra parte, forzandola virtualmente ad accettare qualunque proposta è costretta ad obbedire. L'accordo storico è diventato un accordo tra Israeliani, non un accordo con i Palestinesi.
È un accordo che soffoca il popolo Palestinese dal punto di vista umano perchè non tiene conto dei loro diritti umani e storici; territoriale perchè li isola nelle zone delimitate in città e villaggi mentre progressivamente ne confisca le terre: dal punto di vista della sicurezza perchè pone apriori, come principio fondante, la sicurezza di Isreale al di sopra dei diritti dei Palestinesi di esistenza e sicurezza; politicamente perchè impedisce ai Palestinesi di decidere il loro futuro e di controllare i loro confini.
Nel dire ciò riteniamo di esprimere le più profonde convinzioni del nostro popolo che chiede di avere un confronto reale ed aperto su queste realtà.
Gli Israeliani ed Ebrei dovranno scegliere tra un accordo imposto da un equilibrio di forze spudoratamente a favore del vostro governo e dei vostri militari, e un altro giusto, che potrebbe favorire Israeliani e Palestinesi e che porrà le basi per una vita comune a lungo termine sulla stessa terra. La scelta è nelle vostre mani.
Noi intellettuali palestinesi affermiamo, in tutta chiarezza, che ci sono solo due soluzioni per risolvere in modo giusto la questione palestinese. La prima soluzione è la creazione di uno stato Palestinese con sovranità assoluta sulle terre occupate da Israele nel 1967 e Gerusalemme come capitale, il diritto di ritorno per i rifugiati palestinesi, e il riconoscimento del governo di Israele della storica ingiustizia inflitta al popolo palestinese. Lo stato palestinese nascerà dai principi democratici e umanisti adottati con la Dichiarazione d'Indipendenza Palestinese nel 1988. La seconda soluzione è la creazione di uno stato democratico a doppia nazionalità per i due popoli che vivono sulla storica terra di Palestina.
È chiaro che il negoziatore palestinese, le cui mani sono legate dallo schiacciante equilibrio del potere che lavora contro di lui, potrebbe essere costretto ad accettare un accordo umiliante e degradante che non porterebbe a nessuna di queste due soluzioni. La storia abbonda di esempi di nazioni costrette con la forza ad accettare decisioni che hanno finito di essere una catastrofe per tutte le parti in causa.
Questo messaggio è rivolto, prima e soprattutto a quegli Israeliani che credono nei valori della giustizia e dell'equità, e a tutti coloro che aspirano alla pace nel mondo. A loro diciamo che la soluzione che la leadership d'Israele sta cercando di imporre al negoziatore palestinese potrebbe non essere un accordo con il popolo palestinese. Sarà un accordo fragile che porta in sè i semi della sua stessa distruzione.
Noi non lo sosterremo nè lo accetteremo.
Vi porgiamo le mani per fare una pace reale e giusta, ma non la pace dei militari e della coercizione, non la pace dei generali.
Edit:
postato perchè l'inizio della II Intifada segnò la fine e il fallimento degli accordi di oslo (ricordate la provocazione di ariel sharon di andare il venerdì -giorno della preghiera nel mondo mussulmano- alla spianata di gerusalemme, con conseguente sparatoria sulla popolazione)
é importante ricordare anche (come faceva MaD) che Itzhak Rabin é stato ucciso da un giovane del Likud il 04/11/95 (video)
II Edit:
L'omicidio rabin
Hamira Haas
Iigor Man
tesi di laurea da -studi per la pace-
I recenti sviluppi della crisi israelo palestinese alla luce del diritto internazionale.
Tesi di laurea
Anno Accademico 2001-2002
interessante e utile
"Il Governo dello Stato di Israele ed il team dell'OLP, il quale rappresenta il popolo Palestinese, concordano che è tempo di porre fine ai decenni di scontri e conflitti , riconoscono reciprocamente i loro diritti legittimi e politici, e si impegnano a vivere in coesistenza pacifica e in mutuo rispetto e sicurezza e a realizzare una pace giusta, duratura e completa e una riconciliazione storica mediante il processo politico concordato...". (Yitzhak Rabin - Yasser Arafat, Dichiarazione dei principi, 13 settembre 1993)
Il fallimento di al Fatah
Il fallimento di al Fatah
Ha'aretz
24 Novembre 2002
Amira Hass
Fra i Palestinesi il movimento di al Fatah è noto per essere un "supermercato" - un miscuglio di ideologie con una varietà di orientamenti sociali e comportamentali.
Gente di destra e di sinistra, religiosi e laici, gente che sostiene il diritto al ritorno e gente che vi ha rinunciato, gente incredibilmente ricca e altra disperatamente povera, adulatori e critici, alti funzionari che a proposito di Israele, parlano ancora di "entità sionista" e credono nella soluzione di uno stato unico (in cui gli Ebrei costituirebbero una minoranza tollerata) ed altri che sono amici dei sionisti e sognano due stati che vivano fianco a fianco intrattenendo rapporti cordiali.
Finché l'obiettivo comune è raggiungere l'indipendenza, dicono i membri di al Fatah, questo stato confuso di cose può sussistere.
Ma quando si tratta della libertà che alcuni membri del movimento si prendono con l'uso delle armi, si va oltre l'attraente folklore di un caos ideologico.
L'uccisione di cinque civili israeliani nel kibbutz Metzer da parte di un membro dell'ala militare di al Fatah ha dimostrato una volta ancora come i gradi superiori ed intermedi di al Fatah non abbiano un controllo effettivo su coloro che portano un fucile in nome di al Fatah.
Contrariamente al sistema decisionale centralizzato dell'Hamas e della Jihad islamica, nel movimento al Fatah di Yasser Arafat tre ragazzetti qualsiasi si possono mettere insieme, decidere di essere una cellula militare e portare avanti questa o quest'altra "operazione", qualche volta "rispondendo" all'appello dei loro capi di non oltrepassare la Linea Verde, altre volte andando oltre la linea.
E' possibile che ottengano il permesso da questo o quest'altro ufficiale di al Fatah del loro quartiere, ma si permettono di intraprendere azioni in palese contraddizione con la logica e il buonsenso della campagna diplomatica dell'Autorità palestinese, il cui obiettivo è di ottenere il sostegno attivo dell'occidente per una soluzione che conduca al ritiro di Israele dai territori occupati nel 1967.
Da una parte si permettono di minacciare quelli che criticano Arafat, dall'altra di strappare dei presunti collaboratori dalle mani della polizia palestinese per ucciderli.
Molti e ben noti attivisti di al Fatah sono disgustati dal comportamento criminale mascherato da lotta nazionale delle Brigate Martiri Al Aqsa.
Negli ultimi due giorni, coloro che hanno provato a pronunciarsi apertamente contro l'attentato hanno ricevuto la solita logora risposta di giustificazione: i nostri bambini non sono assassinati nei loro letti? Che importanza ha se sono uccisi da un proiettile o da una bomba, e non da un fucile?
Le bombe israeliane non lasciano vedove e orfani fra noi? Non sono stati proprio gli israeliani a cominciare a sparare, il 29 settembre 2000, prima che al Fatah cominciasse a reagire contro i loro civili? Qualcuno forse si accorge della nostra sofferenza ai check-points? E la nostra umiliazione per colpa dei soldati?
Evidentemente le caratteristiche criminali ed infantili del comportamento dei giovani armati di al Fatah, nei Tanzim, sono controbilanciate agli occhi dell'opinione pubblica palestinese dal fatto che sono percepiti come persone che rispondono con le armi ad una sofferenza collettiva.
Ma il braccio armato di Hamas e della Jihad lo fanno meglio, perché la loro leadership ha deciso una politica chiara, e incoraggiano apertamente gli attentati di massa contro i civili israeliani. Così i giovani di al Fatah e i loro capi si ritrovano in concorrenza interna con le altre organizzazioni palestinesi. Questa concorrenza determina le loro "decisioni" nell'utilizzare le armi più della politica dichiarata dal loro capo, Arafat.
Nessun palestinese dissente con il noto argomento degli altri movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo che il vero terrorismo è quello dell'aereo da guerra che lancia le bombe. Ma ci sono abbastanza attivisti di al Fatah - che hanno mantenuto il loro lavoro negli apparati civili e militari dell'Autorità palestinese - che si sono convinti che la lotta di liberazione nazionale non si può unicamente fondare sulla sete di vendetta ma che deve essere abbastanza ragionevole da prendere in considerazione i fattori esterni, e non soltanto quelli interni. Ma sembra chiaro che il fallimento degli argomenti basati sulle ragioni pratiche abbia come esito che anche le questioni morali non siano ascoltate.
I ricercatori universitari forniranno sicuramente molte risposte sul perché questi militanti abbiano lasciato che i gruppi armati agissero in nome loro imponendo una politica così disastrosa.
Dopo tutto, non si può incolpare unicamente la personalità di Arafat e la scarsa qualità della sua evanescente leadership. Una risposta è stata data recentemente da un membro importante di al Fatah a Gaza, che ha personalmente tratto profitto dai beni di conforto elargiti a lui e a tutti quelli della sua classe per il loro sostegno agli accordi di Oslo: "Grazie ai Martiti di Al Aqsa, non ci uccidono" ha ammesso con franca onestà.
"Grazie alla loro esistenza noi restiamo in vita".
Era un'allusione indiretta al fallimento dell'impegno di Oslo.
In altri termini, la leadership di al Fatah ha fallito nel proporre un piano chiaro e logico di campagna politica per l'indipendenza, quando è diventato palese oltre ogni possibile ombra di dubbio che l'occupazione israeliana non sarebbe terminata facilmente, perché l'Autorità palestinese ha trovato difficile rinunciare ai benefici legati al fatto di essere un'organizzazione dominante sotto gli auspici di Oslo. La leadership di al Fatah non ha osato esigere l'obbedienza dei suoi membri del movimento di liberazione nazionale e proibire metodi che sono "popolari" a scopo di vendetta, ma che danneggiano nel lungo termine, perché il fallimento di al Fatah come regime di governo ha deluso la maggioranza del popolo palestinese.
Il Sionismo nostrano invoca la “soluzione finale”
Il Sionismo nostrano invoca la “soluzione finale” di Andrea Franzoni
Per capire i proclami violenti di alcuni leader arabi, tra l’altro spesso decontestualizzati o tradotti ad hoc per rinforzare l’idea di “islamico cattivo”, non è necessario andare troppo lontano. Non è nemmeno necessario scomodare l’antropologia, le presunte culture né tanto meno la religione. Di fronte all’odio, alla propaganda, al razzismo e alla guerra, purtroppo, non c’è infatti cultura, valore o benessere che tenga.
E’ finito il tempo di credere alle favole, all’arabo che cova odio tra la polvere aizzato da una religione inumana, grezza, che odia la vita stessa e predica la distruzione e la notte. Le stesse parole, gli stessi proclami, la stessa assenza di pietà la possiamo trovare anche altrove, nei popoli apparentemente più civili e operosi, tra delicate opere d’arte e frizzanti elezioni democratiche. La stessa pasta, della quale tutti gli uomini sono fatti, emerge più che mai quando l’odio prende il possesso degli uni e degli altri. Dei palestinesi scalzi e disoccupati, come degli ebrei colti e benestanti.
Nel reciproco inneggiare ai propri diritti e alla propria superiorità, nel reciproco inneggiare all’altrui distruzione, si frantuma ogni presunta superiorità culturale e razziale. Noi come loro, loro come noi. Stessa pasta maledetta, stessi limiti mentali, stesse parole.
«Basta parlare di pace con i redivivi nazisti e facciamo pagare carissimo a loro ogni dito alzato» commenta Antimo Mirandola, direttore e columnist del periodico di informazione e cultura “Ebraismoedintorni.it”. Comodamente seduto davanti ad un computer, probabilmente nella redazione romana della rivista, aizza i suoi simili alla guerra, alla disumanizzazione e all’odio, come il più caricaturale dei mullah.
«Sappiano che ogni loro velleità gli costerà un prezzo insostenibile andando dritti al cuore del problema distruggendo, una volta per tutte, ogni arma, compresi i tric trac, in mano ai nemici d’Israele, che siano a Beirut, a Damasco o a Teheran. Andiamo fino in fondo perché si possa poi vivere finalmente in pace. Siamo “sproporzionati”? Ebbene accontentiamo questo branco di bestie immonde che si permette di giudicare così un popolo che si difende e usiamo la forza “sproporzionata” per garantirci che nessun Israeliano venga più rapito, che nessun bambino “con la stella di David” salti in aria nella propria casa o in pizzeria, che nessun padre circonciso debba lasciare la sua famiglia per andare in guerra. Ma ricordiamoci anche di sputare in faccia quando incontreremo coloro che come sciacalli lottizzano la memoria e vengono a fare i commossi quando si commemora quello sterminio che i loro compagnucci di merende vorrebbero portare a termine».
Scompaiono dal campo i bambini, i ponti, le donne, gli uomini che –come gli israeliani- vogliono solo vivere la loro vita in pace, i 7 canadesi uccisi a Beirut, le centinaia di persone uccise a tradimento in qualche giorno di follia omicida forse anche premeditata, che costituiscono la stragrande maggioranza delle vittime. Dalle parole di questi uomini eleganti, ben nutriti, pettinati, istruiti, non traspare nulla di tutto ciò che si vantano di essere. Più che parole paiono versi, latrati, grugniti di rabbia. L’intolleranza, il razzismo, l’integralismo sono molto più vicini di quello che crediamo.
La stessa sindrome colpisce anche Deborah Fait, altra columnist, che stufa dei negoziati invoca una soluzione finale. «NO, Basta, Basta! Israele non deve più parlare di pace con questa gentaglia, non conoscono il significato di questa parola. Israele deve andare avanti fino alla fine questa volta perchè' Gamla è là ad esempio e non cadrà mai più. Saranno loro a cadere definitivamente perche' hanno ampiamente dimostrato di essere belve assetate di sangue, incapaci di fare altro che terrorismo, guerra e assassinii. Basta! Israele deve andare avanti fino alla fine questa volta. Non provate a fermarci, vigliacchi del mondo». Tutto scompare davanti agli occhi di Deborah: solo i “bambini con la stella di David” hanno per lei un senso, un valore, una dignità. Eppure “andare avanti fino alla fine” cosa significa, se non distruggere, occupare, uccidere indiscriminatamente; “terrorismo, guerra e assassinii”?
«Ricordiamo tutti i nostri fratelli caduti per rendere viva ogni giorno la presenza ebraica in Eretz Israel. -dice una macabra preghiera ispirata agli eventi recenti- Che ogni goccia del loro sangue innocente venga pagata sette volte dal nemico e da tutti coloro che lo aiutano». Sette volte, dieci volte, venti volte. Un ebreo vale sette arabi, come in passato dieci ebrei valevano un tedesco. Nulla ha meno senso delle disequazioni, quando si parla di vite umane. E fa forse ancora più paura quando, a pronunciare certi orrori, non sono guerriglieri un po’ ignoranti, assediati (fosse anche solo culturalmente) dall’occidente, poveri e senza prospettive, ma ebrei benestanti, tanto boriosi quanto evoluti, dalle loro calde poltrone romane. Che speriamo siano, all’interno delle loro comunità, almeno isolati.
Non manca, purtroppo, nemmeno chi inneggia a dio e alle profezie. Quello di Andrei Bereny, altro commentatore di “ebraismo e dintorni”, è un dio che distrugge e tifa per la guerra, l’uccisione di innocenti. Un dio personale, un dio ultrà. «Mi odierete ma vi dico: sono felice! Finalmente, finalmente c'è la guerra. Adesso abbiamo un'opportunità per vincerla, un opportunità di distruggere Amalek, le sette nazioni, di adempiere le mitzvot, di essere ebrei non solo individualmente, ma come nazione. Mi dico, dunque, D-o mio, quanto Sei grande, quanto Sei onnipotente, quanto le Tue vie siano effettivamente e palesamente impossibili per noi da comprendere! L'ebreo non-ebreo eletto primo ministro ci ha promesso disengagement e ridisangagement, deportazioni e rideportazioni di ebrei dalle loro case in Terra d'Israele e adesso, suo malgrado, è rientrato a Gaza e sta rientrando in Libano, tutti territori biblici di Eretz Israel e forse, forse deciderà di distruggere i nostri nemici, hamas, hezb'allah, "PA", iran e siria. Come mai? Perché? Perché "non ha altra scelta!" D-o mio, quanto Sei grande, quanto Sei onnipotente, quanto le Tue vie sono effettivamente e palesamente impossibili per noi da comprendere! Buona guerra, Israele!».
Paolo Guzzanti, senatore di Forza Italia, non scomoda dio. Non è però affatto più tenero, ed esulta. «Buona guerra, Israele. Hai tutte le ragioni per spazzare via con l'uso legittimo delle armi i nemici che sono anche i nemici di un'Europa impantanata nelle sue stesse menzogne e già posseduta dalla penetrazione islamica. Ormai siamo sempre di più ad avere il coraggio di dire buona guerra Israele». Città distrutte, bambini sepolti, donne dilaniate, uomini e ragazzi annientati. La “guerra per raggiungere la pace”. Umiliare e distruggere un popolo, quello libanese, che ha vissuto anche grazie a Israele una guerra civile, 25 anni fa, e che si vede annientato per le ritorsioni contro le azioni di un gruppo armato paramilitare, nemmeno del legittimo esercito libanese (che d’altra parte non ha alcun peso). Di fronte a questi proclami, e a questo razzismo, scompare ogni presunta superiorità, ogni presunto diritto a guardare dall’alto in basso e a pretendere di esportare. Proclami che stupiscono per la maniera esplicita e primitiva con la quale esprimono gli istinti peggiori, ma che sono la punta dell’iceberg di un razzismo, di un disprezzo e di una disumanizzazione ben più subdola strisciante nei media e nella società.
Teste calde? Minoranze inconsistenti, legate più al folklore che alla politica? Oppure esponenti sinceri e onesti delle idee e dei sentimenti di tanti sionisti ebrei o non ebrei? Questa distinzione, che se parliamo della controparte musulmana è risolta in maniera razzista e semplicistica a priori, senza timore di smentita, andrebbe forse approfondita. Pensate cosa sarebbe successo se queste parole fossero state pronunciate da un musulmano italiano o da un esponente della "sinistra radicale". (Il titolo di questo articolo, non a caso, si basa sul rispetto della norma consuetudinaria contemporanea in fatto di titoli che generalizza e decontestualizza. Non prendetevela quindi con me, se il titolo [Il Sionismo nostrano invoca la “soluzione finale”] vi appare esagerato, ma con questa abitudine giornalistica che sto semplicemente rispettando.)
Di cosa dovremmo avere paura, veramente? Dell’arabo cattivo? Dell’ebreo (o meglio del sionista) cattivo?
Dobbiamo avere paura soltanto di noi stessi e delle forze oscure, pilotate dalla propaganda, che si annidano nelle viscere dell’uomo pronte a generare nuove Auschwitz, nuove Beirut, nuove Srebrenica, nuove Kigali. Nuovi mostri, che c’aspettano dietro l’angolo non appena qualcosa riesce a corrodere la nostra umanità, la nostra lucidità, il nostro amore per la vita e per la pace. Non appena il vicino diventa straniero, l’innocente colpevole, e gli occhi si annebbiano. Basta poco per trasformare il “colto” in belva, le questioni politiche e le cronache in generatrici di mostri. Centinaia di donne e bambini in vittime collaterali.
Nuovi mostri si riempiono la bocca di ragioni e di divinità diverse ma, nell’odio cieco e brutale, svelano quanto siamo tutti fatti di un’unica, debole ed imperfetta, pasta.
Andrea Franzoni
Si prega di visitare il sito www.ebraismoedintorni.it per leggere integralmente gli articoli ai quali si fa riferimento.
Comunità ebraica di Milano - Il testo della lettera aperta al Console Libanese
Sua Eccellenza Hassan Najem
Siamo qui a portarLe la nostra solidarietà. Il dolore che state vivendo è anche il nostro. I libanesi non meritano quanto stanno passando.
E pensare che tutto è cominciato per iniziativa di un singolo gruppo armato, fa ancora più rabbia.
Ma non dobbiamo perdere la forza del dialogo, e dobbiamo anzi sforzarci di riflettere sulle conseguenze delle iniziative belliche di singoli gruppi. Crediamo fortemente nella pace, e per questo crediamo che essa si avvicinerà quanto più il governo libanese riuscirà ad emanciparsi dalla presenza di Hezbollah.
Come del resto ha auspicato recentemente anche il nostro Presidente del Consiglio, e come richiesto dalla risoluzione Onu 1559 del 2004, Non esiste infatti stato pacifico che possa convivere con una forza militare alternativa all’esercito dispiegata sul proprio territorio.
Non esiste stato di diritto dove un gruppo di miliziani possa decidere di fare la guerra a un paese limitrofo senza neppure sentire il parere del legittimo governo.
Non esiste una simile situazione neppure nei paesi tanto amici di Hezbollah. Sia l’Iran che la Siria si guardano bene infatti dal lasciare milizie armate autonome sul proprio territorio.
Da qui bisogna partire se si vogliono evitare nuovi scontri e nuove sofferenze. Un cessate il fuoco senza il disarmo di Hezbollah rischierebbe di essere solo un intervallo fino ai prossimi scontri.
Siamo con voi, perché sia il popolo libanese a decidere del proprio futuro, sia esso di pace o di guerra, fiduciosi come siamo che, laddove sono le persone a scegliere, la pace possa avere la meglio.
Abbiamo sofferto con voi per l’uccisione del premier Hariri, così come abbiamo gioito con voi per il ritiro delle truppe siriane.
In nome della pace siamo qui a chiedere sostegno al vostro governo per le ricerche dei soldati israeliani rapiti, innocenti burattini di un gioco i cui fili vengono mossi a Teheran e a Damasco, ma le cui conseguenza pagano i libanesi tanto quanto gli israeliani.
Nella speranza che vogliate accogliere queste nostre parole di dialogo e di amicizia, sappiate che per noi è motivo di dispiacere il solo pensare che tra Libano e Israele non possano esserci normali relazioni diplomatiche. Sono troppe le cose belle che possiamo costruire con gli altri, per sprecarle in quell’orribile gioco chiamato guerra.
Nella speranza che presto giunga una pace definitiva e nella speranza che da essa possa presto nascere un mutuo riconoscimento, Le porgiamo i nostri migliori auguri.
A Lei e al suo Paese. Che la pace sia con voi.
Shalom.
Leone Soued (presidente della Comunità Ebraica di Milano)
Davide Romano (segretario ass. Amici Di Israele)
(speriamo che in futuro vengano prese iniziative simili, spese parole e si prenda posizione anche per i tanti libanesi che vengono sequestrati o tenuti in ostaggio dai sionisti - fra)
Edit:
Citazione:
Originariamente Scritto da Kurt Nimmo
Nessun riferimento qui alle centinaia di Libanesi tenuti illegalmente da Israele in prigioni che sono luoghi di tortura. Precedentemente, questo mese, il governo libanese
si è lamentato con il rappresentante del Segretario generale dell' ONU a Beirut per “la continua cattura di detenuti, e... le centinaia di persone scomparse, che si pongono come violazioni dei diritti umani”.
Israele
ha ammesso di rapire i Libanesi per scopi politici, ma per qualche ragione questo fatto non è citato dai media delle corporation. Nei tardi anni '90, prima che Israele fosse sfrattato da Hezbollah dal Libano del Sud, era pratica comune per Israele rapire Libanesi completamente innocenti e trattenerli come “fiches da contrattazione”, cioè non trattenendoli, secondo
Amnesty International, “per le loro loro azioni, ma come scambio per soldati israeliani dispersi o uccisi in Libano”. Come al solito, questi fatti vengono ignorati dal nostro governante designato e dai media delle corporation.
Perché condanno Sharon - di Igor Man
A lume di candela, Arafat, praticamente carcerato in quello che fu il suo studio, scrive le sue (ultime?) lettere al mondo. C'è qualcosa di romanticamente arcaico in questo scrivere a lume di candela la cronaca dell'istante destinata a diventare Storia. Stendhal scrisse Il rosso e il nero alla luce ricca dei candelabri della Certosa. Si considerava, scrisse, ostaggio della bellezza. Arafat è ostaggio d'un vecchio nemico in debito di ossigeno, affetto da bulimia territoriale, di un uomo che non ha mai nascosto di odiarlo e che a distanza di vent'anni, lui, Sharon, si dice "pentito" di non aver ucciso Mister Palestina durante la battaglia di Beirut, nel 1982
C'è qualcosa di illuminante in questo buio rischiarato da umili steariche, laggiù, in quello che fu l'effimero regno della speranza palestinese. Vediamo chiaramente che la grande illusione è soltanto una illusione che ci siamo portati appresso ancora sino a un anno fa, prima della passeggiata derisoria di Sharon sulla Spianata delle Moschee. La seconda intifada, quella di Al Aqsa, nasce da una provocazione che apparve banale, improvvida e invece era stata studiata, fin nei minimi dettagli, la passeggiata, dico, per recidere il filo della residua speranza, per dire con protervia non solamente ai palestinesi ma altresì all'Europa, al mondo intero, che se pace doveva esserci in Terra Santa non sarebbe stata quella abbozzata coraggiosamente dagli accordi di Oslo. No. Per la destra israeliana, per Sharon che ne è il poster e l'ideologo, era possibile immaginare soltanto un patto leonino truccato col cosmetico della acquiescenza americana, da "pace possibile". Cosa intende la destra israeliana per "pace possibile"? Una serie di bandustan per i palestinesi, una Soweto mediorientale. Nessuno, neanche il più sprovveduto dei dirigenti palestinesi, nemmeno un Quisling, avrebbe mai potuto accettare una pace finta e cattiva come quella proposta dalla Destra israeliana. Sharon non è uno stupido: sapeva benissimo che la sua idea di pace aggiungeva nuovo magma alla disperata colata lavica della disgrazia palestinese. Egli s'era impegnato, col suo popolo generoso, paziente, coraggioso, affamato di pace e di sicurezza, a garantire la sicurezza di Israele, appunto, in forza di una "politica realistica che tenesse conto della realtà geopolitica, della lezione della Storia recente".
Al punto in cui stanno le cose, quando ormai sul popolo Palestinese sta franando una nuova Nabka (catastrofe) può apparire sterile contestare al governo Sharon una politica dissennatamente volta a impedire una pace in buona e dovuta forma. Ma pensiamo sia legittimo per chi segue da cinquant'anni la questione mediorientale reagire a quella che si profila come una (ennesima) truffa storica.
Al mondo, soprattutto all'amico fedele e acritico: gli Stati Uniti d'America, cosa dice in sostanza Sharon? Dice: io sto combattendo contro il terrorismo. Io perseguito i terroristi. Io voglio punire Arafat che è cattivo e falso: non vuole la pace, ci terrorizza con gli attentati suicidi, mettendo quotidianamente a repentaglio la vita degli israeliani. Quando avremo battuto il terrorismo, eliminando Arafat, solo allora potremo parlare di pace nella sicurezza. E' un discorso che non può non impressionare in primo luogo il presidente Bush che s'è visto stuprare (da terroristi insospettabili) le Torri Gemelle, e con esse il mito della invulnerabilità americana. Ma è un discorso tragicamente banale, non degno d'un uomo politico, di un onesto soldato quale Sharon vuol essere o apparire.
Ignorava il signor Sharon, generale, che il terrorismo suicida esplode in Libano, contro l'occupazione israeliana, e che ad importarlo sono stati i pasdaran spediti negli anni Ottanta da Khomeini nell'infelice Paese dei cedri? Ignora il signor Sharon che gli Hezbollah (il partito di Dio, di matrice sciita) praticano il terrorismo suicida convinti che alla fine, stroncherà psicologicamente i soldatini di Tsahal? Ignora il signor Sharon che il suo predecessore, il premier generale Barak, fu costretto a ritirare precipitosamente dal Libano le sue truppe per evitarne il collasso psicologico? Ignora che una volta partiti i soldatini di David, il terrorismo suicida s'è messo in sonno nel Libano?
No il signor Sharon non ignora nemmeno una virgola di tutto ciò. Perché, allora, la passeggiata di provocazione? Perché, una volta conquistato il potere, ha voluto inaugurare una politica ambigua, fatta di punture di spillo, di docce scozzesi infine sfociata in una vera e propria guerra a bassa intensità? Perché ha pigiato l'acceleratore, brutalmente, ben sapendo dei disgraziati ragazzi dei campi profughi indottrinati dagli ideologi venuti in gran parte dall'Università di Bir Zeit (già aiutata dai servizi affinché religiosamente si opponesse al movimento laico di Arafat)? Perché s'è spinto oltre la provocazione ben sapendo che la reazione sarebbe stata, fatalmente, il terrorismo suicida? Lui, Sharon, accusa Arafat di essere il raiss dei terroristi suicidi, rovesciando l'orrore e la morte da essi seminato in Israele sulle spalle di Arafat. Ma egli, il signor Generale, non ignora che ogniqualvolta è sembrato che si riprendesse a parlare di pace, le liste di attesa degli aspiranti "martiri" si sono svuotate. E' stata la sua politica tesa a umiliare con la forza il diritto a una esistenza decente, riconosciuto universalmente ai palestinesi, innanzitutto dagli intellettuali israeliani, molti dei quali già valorosi soldati e, in ogni caso, patrioti-doc; è stata la sua rozzezza politica, la presunzione d'essere il più forte, il Giusto imbattibile, a far precipitare le cose.
E con quale faccia una persona ragionevole può pretendere da un leader dimezzato, Arafat, che combatta il terrorismo privandolo nel contempo dei mezzi opportuni e indispensabili, limitando la sua stessa autorità sì da impedire, giustappunto, che Arafat possa arrestare, o frenare, i fautori della linea dura, coloro che accusano il vecchio fedayn di aver fallito politicamente, di illudersi nella volontà di pace degli Stati Uniti in Terra Santa?
E' come se tu legassi le caviglie al centometrista per impedirgli di scattare nella corsa, squalificandolo, poi, per non aver corso, fingendo di ignorare, dimenticando che proprio tu, legandolo, gli hai impedito di correre.
Sì lo so: sono discorsi pericolosi questi, guai a toccare Sharon, il meno che può capitarti è d'essere definito "antisemita". Fingendo di ignorare che tu hai rischiato la tua giovine vita, durante l'occupazione tedesca di Roma, proprio per aiutare la resistenza a mettere in salvo ebrei in fuga, allo sbaraglio, molti dei quali tunisini.
Certo il terrorismo è un arma sporca, ne sanno qualcosa gli storici, i cronisti che ricordano le bombe dell'Irgun al King David di Gerusalemme, ovvero la strage di Dear Yassin.
E' un arma sporca e per di più "non risolve". Nemmeno il nuovo terrorismo sporco, questo di oggi, il terrorismo suicida di marca sciita, "risolve". Però ha trasformato la vita della società civile israeliana in un incubo permanente. Ha ragione Bush: "Il cuore ti si spacca vedendo un carnaio che fino a pochi attimi prima era un giardino di pace, di bellezza illuminato dalla Pasqua ebraica".
Sono stati i terroristi suicidi, palestinesi, a uccidersi per uccidere, ma chi li ha convinti a sacrificarsi? Gli apprendisti stregoni. Sollecitati dalla politica del carro armato praticata da Sharon. La Storia non si fa con i se. Ma se un pio giovinetto studioso della Torah non avesse ucciso il soldato della pace, il Generale invitto, Rabin, oggi i due popoli vivrebbero pacificamente l'uno accanto all'altro, imparando a conoscersi. E i terroristi suicidi sarebbero già finiti nell'inferno dei disperati. Nel dimenticatoio della Storia.
Ma sì: che il signor generale Sharon faccia pure fuori il vecchio fedayn, che lo umili come un Ceaucescu qualsiasi: avrà commesso un altro dei suoi tanti tragici errori. Senza, per tanto, aver assicurato al suo popola la sicurezza.
Igor Man
Pubblicato sul portale Yahoo! Notizie il 03.04.2002
Atrocità nella terra promessa - di Kathleen Christison
Atrocità nella terra promessa di Kathleen Christison(*)
La folle brutalità dello Stato Israele
Le parole non bastano; i termini normali sono inadeguati a descrivere gli orrori perpetrati giornalmente da Israele, e che ha perpetrato per anni contro i palestinesi. La tragedia di Gaza è stata descritta centinaia di volte, come le tragedie del 1948, di Qibya, di Sabra e Shatila, di Jenin --sessant'anni di atrocità perpetrati nel nome del Giudaismo. Ma l'orrore in genere non trova ascoltatori in gran parte di Israele, nell'arena politica Usa e nei maggiori media Usa. Coloro che sono inorriditi -- e ce ne sono tanti -- non riescono a penetrare lo scudo di impassibilità che impedisce all' elite politica e dei media in Israele, ancora di più negli Usa, sempre di più ormai in Canada e in Europa, di vedere e di prestare attenzione.
Ma ora bisogna dirlo a voce alta: coloro che pianificano e compiono le politiche di Israele hanno fatto di Israele un mostro, ed è giunta l'ora per tutti noi -- tutti gli israeliani, tutti gli ebrei che permettono che Israele parli per loro, tutti gli americani che non fanno nulla per fermare l'appoggio Usa a Israele e alle sue politiche assassine -- di riconoscere che ci macchiamo moralmente continuando a starcene seduti mentre Israele compie le sue atrocità contro i palestinesi.
Una nazione che assegna ad un'etnia o a una religione il primato su tutte le altre finirà per diventare psicologicamente malata. Narcisisticamente ossessionata dalla sua stessa immagine, dovrà combattere per mantenere la sua superiorità razziale a tutti costi e finirà inevitabilmente per vedere ogni resistenza contro questa immaginaria superiorità come una minaccia alla sua esistenza. Infatti ogni altro popolo diventa automaticamente, solo per il fatto di esistere, una minaccia all'esistenza. Cercando di proteggersi contro minacce fantasma, lo Stato razzista diventa sempre più paranoico, la società chiusa e isolata e intellettualmente limitata. Gli ostacoli lo fanno infuriare; l'umiliazione lo fa impazzire. Lo Stato attaccherà in uno sforzo folle, senza alcun senso della proporzione, per rassicurare se stesso sulla sua forza.
Questo schema si mostrò nella Germania nazista che cercava di mantenere una mitica superiorità ariana. Si sta mostrando ora in Israele. "Questa società non riconosce più alcun confine geografico o morale," scrisse l'attivista antisionista e intellettuale israeliano Michel Warschawski nel suo libro del 2004 “Towards an Open Tomb: The Crisis of Israeli Society” [Verso una fossa aperta: la crisi della società israeliana n.d.t.]. Israele non conosce limiti, sta attaccando perchè trova che il suo tentativo di sottomettere i palestinesi e ingoiare l'intera Palestina viene intralciato da un popolo palestinese silenzioso e dignitoso che rifiuta di sottomettersi senza protestare e di abbandonare la resistenza all'arroganza di Israele.
Noi negli Stati Uniti siamo diventati insensibili alle tragedie inflitte da Israele, e cadiamo facilmente nella propaganda che automaticamente, con un qualche trucco dell'immaginazione, trasforma le atrocità di Israele in esempi di come Israele sia reso vittima. Ma un establishment militare che sgancia una bomba da 500 libbre su un edificio residenziale nel mezzo della notte e uccide 14 civili durante il sonno, come accaduto quattro anni fa a Gaza, non è un esercito che opera secondo regole civili.
Un establishment militare che sgancia una bomba da 500 libbre su una casa nel mezzo della notte e uccide un uomo, sua moglie e sette dei loro figli, come accaduto a Gaza quattro giorni fa, non è un esercito di un paese morale.
Una società che può cancellare come non importante il brutale omicidio, da parte di un ufficiale dell'esercito, di una ragazzina di 13 anni -- una dei quasi 700 bambini palestinesi uccisi da Israele dall'inizio dell' intifada -- con l'affermazione che ella aveva minacciato i soldati di una postazione militare non è una società con una coscienza.
Un governo che imprigiona una ragazzina di 15 anni -- una tra le diverse centinaia di bambini detenuti da Israele -- per il crimine di avere spinto ed essere scappata da un soldato maschio che cercava di perquisirla mentre entrava in una moschea, non è un governo con una condotta morale. (Questa storia, che non è del genere che comparirà mai nei media Usa, è stata raccontata dal London Sunday Times. Alla ragazza fu sparato tre volte mentre scappava ed è stata tenuta per 18 mesi in prigione dopo che fu uscita dal coma.)
I critici di Israele notano sempre più che Israele è autodistruttivo, quasi una catastrofe per la sua stessa costruzione. Il giornalista israeliano Gideon Levy parla di una società in " collasso morale".
Michel Warschawski scrive di una "follia israeliana" e di una "folle brutalità", "putrefazione" di una società civilizzata, che ha messo Israele sulla strada del suicidio. Egli prevede la fine dell'impresa sionista; Israele, egli dice, è una "banda di teppisti", uno stato "che si fa beffe della legalità e della moralità civile. Uno Stato che arriva a disprezzare la giustizia perde la forza di sopravvivere."
Come fa notare amaramente Warschawski Israele non conosce più alcun limite morale -- se mai lo ha conosciuto. Coloro che continuano ad appoggiare Israele, che lo giustificano mentre scende nella corruzione, hanno perso la loro bussola morale.
(*)Kathleen Christison è un ex analista politica della C.I.A. e ha lavorato per trent'anni su questioni mediorientali. E’ l'autrice di “Perceptions of Palestine and The Wound of Dispossession” [Percezioni della Palestina. La Ferita dell' espropriazione n.d.t.].
Può essere contattata a kathy.bill@christison-santafe.com
Fonte: http://www.counterpunch.org/
Link: http://www.counterpunch.org/christison07172006.html
17.07.2006
Scelto e tradotto per [www.comedonchisciotte.org] da ALCENERO (Marcoc)
Medio Oriente. Gli appelli della Caritas, le testimonianze della popolazione
Medio Oriente. Gli appelli della Caritas, le testimonianze della popolazione
di Mattia Bianchi/18/07/2006 korazym.org
Il conflitto mediorientale non è solo un groviglio politico e diplomatico da sciogliere: il Libano è ripiombato ormai in una vera e propria emergenza umanitaria. Gli appelli e le testimonianze...
Il conflitto mediorientale non è solo un groviglio politico e diplomatico da sciogliere: il Libano è ripiombato ormai in una vera e propria emergenza umanitaria. Gli appelli e le testimonianze...
Il conflitto mediorientale non è solo un groviglio politico e diplomatico da sciogliere: il Libano è ripiombato ormai in una vera e propria emergenza umanitaria. La denuncia arriva dalla Caritas, da sempre impegnata nelle zone di crisi, secondo cui sono ormai migliaia le persone in fuga dai villaggi del sud del Paese, a ridosso di Israele. E se le ong straniere hanno ricevuto dai rispettivi governi il consiglio di lasciare il Paese, i volontari sono già attivi per i primi aiuti, dal trasporto delle persone più deboli alla distribuzione di pane e latte. Generi che cominciano a scarseggiare, come l'acqua per via degli acquedotti danneggiati.
“Le notizie che arrivano dal Libano, da Israele e dai Territori palestinesi ci riempiono di grande preoccupazione – dice mons. Vittorio Nozza, direttore di Caritas Italiana - per l'ennesima volta le armi prevalgono sul dialogo e sulla paziente negoziazione”. “Dopo un periodo di relativa calma, nonostante la presenza di truppe israeliane nel sud del Paese fino al maggio 2000, e di quelle siriane fino all'aprile 2005 – continua mons. Nozza - il paese sembra oggi ricadere in una spirale di violenza, come del resto tutto il Medio Oriente. Unendo la propria voce ai numerosi appelli che hanno chiesto e continuano a chiedere che si torni al dialogo affinchè tutti i popoli della regione possano vivere in pace e in sicurezza, Caritas Italiana auspica un ampio coinvolgimento e una pronta risposta solidale delle nostre comunità per poter intensificare gli interventi in Terra Santa”.
Sulla stessa linea anche la Caritas Internationalis, la confederazione delle 162 realtà locali, che chiede un cessate il fuoco immediato “affinché venga fermata la strage di vittime umane”. ”Guidati dall'insegnamento sociale della Chiesa cattolica - ha continuato la Caritas Internationalis – e in linea con il diritto umanitario internazionale, noi chiediamo la fine di tutte le violenze e l'inizio di un negoziato costruttivo orientato a trovare soluzioni di lungo termine. Gli stati e le autorità che ignorano il diritto internazionale dimostrano di non rispettare le convenzioni che loro stessi hanno firmato''. Tuttavia, l'organizzazione ha precisato ''di credere in una giusta pace in Medio Oriente”, che passi dal ruolo della Comunità internazionale per aiutare “i popoli di Israele, Palestina e Libano a fare marcia indietro ed evitare l'esplosione di una guerra su vasta scala”.
Intanto, dal Libano cominciano ad arrivare le prime testimonianze. Come quella di un giovane francescano, chierico studente al convento di Santa Chiara di Napoli, tornato in questi giorni a Beirut dalla sua famiglia. “Il bombardamento è stato tragico – ha scritto il giovane alla Custodia di Terra Santa di Gerusalemme - non ci sono più nè aeroporti nè porti, e nemmeno i confini con la Siria perchè li hanno attaccati. Stanno bloccando ogni zona ed eliminando tutti i passaggi fra le città. Stanno distruggendo i piccoli villaggi, specialmente nel Sud. Purtroppo nessun Paese ci sta aiutando”. La gente è sconvolta: “Quello che accomuna i libanesi è la solidarietà, ma anche una grande tensione e molto stress. Chiediamo che Israele si fermi almeno un giorno, perchè sono cinque giorni che bombardano senza pausa”. Il timore di rimanere isolati si avverte anche nella lettera delle Suore Clarisse di Beirut. “Tutte le vie di comunicazione sono impraticabili, via terra, aria e mare. Ci resta ancora il telefono, Internet e i cellulari. Per questo vi mando queste poche notizie, nel caso anche questi mezzi vengano soppressi”.
Crisi nei media nell'informazione su Gaza
Crisi nei media nell'informazione su Gaza
L'importanza dell'informazione libera nella formazione dell'opinione pubblica sul conflitto israelo-palestinese.
di Patrick O'Connor
5 Luglio 2006
Un elemento che alimenta l'attuale crisi di Gaza è il continuo fallimento dei grandi media USA nel coprire adeguatamente il conflitto israelo-palestinese. La politica USA, l'opinione pubblica e la copertura da parte dei mainstream media sono tutti pericolosamente sbilanciati verso Israele. La copertura dei media riflette ed influenza la politica e la pubblica opinione. La copertura dei media degli eventi di Gaza illustra ancora in che modo i grandi media americani privilegino la versione israeliana, e frequentemente ignorino sia le esperienze dei Palestinesi che il diritto internazionale, fornendo al pubblico USA ed ai politici solo parte della storia.
Domenica, il primo ministro israeliano Ehud Olmert ha ammesso che era sua intenzione commettere crimini di guerra a Gaza, dicendo ai membri del suo gabinetto che lui voleva che "nessuno dormisse a Gaza stanotte". Olmert pertanto ha ufficialmente ammesso la politica israeliana di punire 1,4 milioni di Palestinesi, una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra. Ma nessuno dei tre principali quotidiani USA -- il New York Times, il Washinton Post e il LA Times -- ha riferito l'affermazione di Olmert, anche se essa è stata ampiamente citata nel mondo.
La scorsa settimana, questi tre principali quotidiani hanno anche pubblicato editoriali a deciso sostegno del diritto di "rappresaglia" d'Israele dopo la cattura di un soldato israeliano. I loro editoriali non hanno mai menzionato un solo elemento del brutale assedio di 10 mesi da parte d'Israele su Gaza. In un ammonimento in un editoriale a sostegno della guerra in Iraq, il Post assunse la posizione più belligerante, plaudendo la "moderazione" israeliana ed approvando il rovesciamento dell'Autorità Palestinese a guida Hamas. Sebbene i principali quotidiani hanno pubblicato alcuni buoni articoli sul punto di vista palestinese negli scorsi giorni, la loro fondamentale faziosità verso Israele è rimasta più che evidente.
Il 2 Luglio Ehud Olmert ha detto ai suoi colleghi di governo "io voglio che nessuno dorma stanotte, voglio che capiscano cosa significa" questo nei centri abitati vicino Gaza che sono state colpite dai razzi palestinesi Qassam. La sua affermazione si riferiva direttamente alla pratica israeliana di svegliare i Palestinesi nel cuore della notte con ripetuto voli di jet per rompere il muro del suono, e i bombardamenti notturni di Gaza. Inoltre, Israele di notte tiene svegli gli abitanti di Gaza col timore della povertà, l'assedio, gli attacchi imminenti, e la mancanza di elettricità, acqua, combustibile e cibo. L'affermazione di Olmert è stata ampiamente riportata sui media israeliani, della dall'Associated Press, da The Chicago Tribune, da The International Herald Tribune, e dal britannico Guardian, tra gli altri. Una ricerca su Google su questa citazione evidenzia 279 articoli, per lo più da siti web di giornali degli Stati Uniti. Alcuni di questi giornali hanno senza dubbio stampato questa storia.
Tuttavia non c'è nessun indizio delle parole di Olmert sul LA Times e sul Washington Post. La copertura del New York Times è più interessante. I corrispondenti del New York Times Steven Erlanger e Ian Fisher hanno riportato la citazione in un articolo on line che è stato pubblicato anche dall'International Herald Tribune. Comunque, la citazione non è mai apparsa sulla versione cartacea del giornale. I redattori del Times sembrano aver deciso che le parole di Olmert non erano "adatte per la stampa", e le hanno cancellare dall'articolo del loro giornalista. La cospicua assenza di una citazione così ampiamente riportata ed emblematica solleva la possibilità che i principali giornali USA attivamente evitano di stampare ciò che fa apparire Israele troppo scopertamente cattiva.
Ciò che è certo e che i principali giornali USA generalmente omettono il contesto dei diritti umani e del diritto internazionale, così come il correlato concetto di punizione collettiva, e proporzionalità, tutte cose continuamente violate da Israele. Il 2 Luglio, l'organizzazione dei diritti umani B'Tselem ha specificamente criticato l'affermazione di Olmert, dicendo che, "L'uso dei boom sonici è una flagrante violazione di molte disposizioni del diritto internazionale. La più significativa disposizione è la proibizione alla punizione collettiva, L'articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra... afferma categoricamente che le 'pene collettive ed ugualmente tutte le misure di intimidazione terroristica sono proibite'". Oltre a criticare i boom sonici, Human Rights Watch ha osservato il 29 Giugno che "Le leggi di guerra proibiscono attacchi su 'oggetti indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile'". L'attacco d'Israele alla sola centrale elettrica di Gaza è in violazione dei suoi obblighi a salvaguardare questi oggetti dagli attacchi'".
La dura punizione collettiva dei Palestinesi è stata storicamente la pietra di volta della politica israeliana, e caratterizza l'assedio israeliano di Gaza, i tre principali giornali USA hanno usato la frase "punizione collettiva" appena quattro volte dall'inizio della recrudescenza della crisi i 25 Giugno. Ogni giornale ha citato l'affermazione del leader palestinese Mahmaoud Abbas una volta, e il New York Times ha anche citato il proprietario di una drogheria palestinese. Questi stessi giornali hanno stampato la frase "punizione collettiva" per un totale di sole altre sei volte quest'anno nei loro servizi sul conflitto Israelo-palestinese. Dal Giugno 25 questi giornali hanno usato le parole "terrorista" o "terrorismo" 28 volte per descrivere i Palestinesi, mentre hanno detto "occupazione" solo sei volte per descrivere le azioni israeliane. Le citazioni dell'illegalità degli insediamenti israeliani, il Muro, la demolizione di case, la detenzione di Palestinesi, e molte altre misure sono ugualmente rare. Mentre questi quotidiani documentano le crisi umanitarie sofferte dai Palestinesi, essi generalmente evitano di suggerire che i Palestinesi hanno gli stessi diritti degli Israeliani, o che c'è un accettato sistema legale che dovrebbe essere applicato non solo agli attacchi palestinesi, ma anche alle azioni israeliane.
Allo stesso modo, nel prendere posizione nell'attuale crisi, queste redazioni di giornali cancellano completamente le più recenti violazioni dei diritti umani da parte di Israele. Tutti e tre i giornali hanno biasimato solo Hamas. L'editoriale del New York Times del 29 Giugno ha sottolineato le "irresponsabili provocazioni di Hamas", e l'editoriale del 1 Luglio del Washington Post dal titolo "La guerra di Hamas" ha evidenziato gli atti di terrorismo e guerra" di Hamas. Scrivendo come se la storia iniziasse il 25 Luglio con la cattura del soldato Israeliano e l'attacco palestinese si fosse materializzato dal nulla, nessuno dei loro editoriali fa cenno alla violenza sproporzionata di Israele -- i 39 anni di occupazione militare; i 176 palestinesi uccisi nel 2006, molti dei quali civili e bambini, a paragone dei 16 Israeliani uccisi; 8300 granate d'artiglieria lanciate dentro Gaza quest'anno a paragone degli 840 razzi palestinesi lanciati verso Israele; i continui sequestri di terra da parte di Israele; o il soffocante assedio di Gaza. Solo il New York Times ha fatto menzione del fatto che Hamas sta ora rompendo la tregua unilaterale durata 16 mesi. Gli editoriali dei giornali israeliani hanno più sfumature e maggior equilibrio che questi editoriali USA.
Nessuno degli editoriali ha rilevato che il Palestinesi uccisero e catturarono soldati israeliani impegnati nell'assedio di Gaza. Nessuno ha rilevato l'ironia del fatto che i Palestinesi stavano tenendo prigioniero un solo soldato israeliano, mentre Israele sta detenendo 9.000 prigionieri, molti civili che non hanno avuto un processo, ed alcuni sottoposti a tortura. In una frase che avrebbe potuto essere scritta da una agenzia di pubbliche relazioni del governo israeliano, i giornalisti del Post hanno scritto che "i militanti chiedono a Israele il rilascio di prigionieri palestinesi legalmente arrestati i cambio di un soldato che è stato attaccato mentre sorvegliava il territorio israeliano".
Dopo la razionalizzazione dell'arresto da parte di Israele di 60 leader di Hamas, molti dei quali ministri dell'Autorità Palestinese, i giornalisti del Post hanno sminuito la distruzione di una centrale elettrica che fornisce a Gaza metà della sua energia. In una espressione finale di oltraggio che combina sia la cecità verso la violenza di Israele che la completa indifferenza verso il diritto internazionale, l'editoriale del Post del 1 Luglio raccomandava che gli Stati Arabi e le Nazioni Unite smettessero di "protestare rumorosamente contro presunti crimini di guerra israeliani".
Una volta ancora, la propaganda del governo israeliano travolge la versione palestinese, e i diritti umani e il diritto internazionale sono messi da parte. Questi esempi illustrano come i grandi media americani stanno dando attivamente forma all'informazione destinata al pubblico USA a vantaggio di Israele, e stanno promuovendo l'idea che Hamas e il terrorismo palestinese sono i soli problemi del conflitto in atto. Senza una copertura più equilibrata dai media dell'establishment come New York Times, Washington Post e LA Times, è improbabile che la politica USA e l'opinione pubblica acquisiscano a loro volta un maggiore equilibrio verso il conflitto israelo-palestinese. La necessità del mediattivismo sul tema di Israele e Palestina è più vitale che mai.
Libano 2006: il peggiore dei deja vu - di Carlo Bertani
di Carlo Bertani
Se non intervenisse l’informazione di regime a rimescolare le carte – perché hanno la coda di paglia – sarebbe addirittura noioso commentare la guerra in Libano: potremmo cercare articoli di vent’anni fa che narravano di Beirut, cambiare qualche nome e ripubblicarli.
Invece la protervia infinita di chi non rinuncia a gettare sabbia negli occhi per celare una verità che è lampante stimola, e torna la voglia di scrivere.
Anzitutto l’uso delle parole, che non è casuale.
Tutta la crisi sembrerebbe nata dal rapimento di tre soldati israeliani, uno a Gaza e gli altri due sul confine libanese, ma da quando mondo è mondo i soldati non si rapiscono, si catturano.
I soldati vengono catturati e non rapiti perché i militari sono lì per fare la guerra, non per piantare margherite, ed i soldati israeliani sparano, eccome se sparano: ogni giorno che passa è uno stillicidio di vittime – moltissimi bambini – che entrano nei disastrati ospedali palestinesi, sempre che non siano colpiti anche gli ospedali – come fecero gli americani a Falluja – con la scusa della “lotta al terrorismo”. Niente paura, dopo i misfatti gli israeliani si scusano sempre: sono una nazione “democratica”, ed in “democrazia” il bon ton non deve mancare.
Anche sul numero delle vittime civili la tradizione è rispettata: per difendersi dagli attacchi dei razzi lanciati da Hezbollah – che hanno provocato ad oggi 10 vittime civili in Israele – l’aviazione di Tel Aviv ne ha ammazzate (solo i civili) 200 in Libano. Il classico rapporto di 1 : 20 è rispettato, come nelle peggiori rappresaglie di guerra: almeno, i repubblichini di Salò attuavano un più “modesto” 1 : 10.
Sono state uccise intere famiglie, addirittura una famiglia canadese in visita ai parenti in Libano ed un casco blu indiano, dopo che Tzahal aveva preso di mira anche le forze ONU sul confine. E non si venga a dire che è stato un “errore” colpire due distinti raggruppamenti di caschi blu perché l’esercito israeliano, quando spara, sa bene su chi spara. Tanto, dopo si scusa.
Chi invece rapisce, e non cattura, è proprio Israele, che nei giorni scorsi ha “catturato” tre ministri dell’Autorità Palestinese: attenzione, tutta la stampa usa il termine “catturati”, ma nessuno ha mai sentito parlare della “cattura” di un ministro, semmai del rapimento, perché i ministri non sono dei combattenti.
Quindi, se vogliamo osservare con freddezza gli eventi, chi si è macchiato per primo del crimine di rapimento non sono gli Hezbollah, ma Israele: tanto per farlo sapere alla gran parte della politica italiana, che non perde occasione per genuflettersi in direzione di Tel Aviv.
Veniamo allora alla presenza di Hezbollah in Libano, ed alla richiesta d’attuazione della risoluzione 1559 dell’ONU che chiede proprio il disarmo delle milizie islamiche nel Paese dei Cedri. La richiesta è corretta, giacché proviene proprio dal Palazzo di Vetro; domandiamoci: perché Hezbollah è in Libano?
Inutile raccontare frottole: Hezbollah è un’emanazione di Teheran, che è lì per attuare un piano che dovrebbe condurre l’Iran a diventare il nuovo stato “guida” del Medio Oriente, sostituendo la muta Arabia Saudita ed il balbettante Egitto.
La ragione della presenza di Hezbollah, anche se strumentale, è pur sempre l’occupazione militare da parte di Israele dei territori conquistati con una guerra d’aggressione nel 1967, in aperto spregio della legalità internazionale.
Già, affermano i nuovi amici d’Israele – Fini in testa, che dell’antisemitismo dovrebbe saperne qualcosa – ma la risoluzione 1559 deve essere attuata, punto e basta. Giusto, ma allora attuiamo tutte le risoluzioni ONU e facciamola finita.
L’ONU attende ancora che sia attuata la risoluzione 338. Cosa raccontava la risoluzione 338 del 1973?
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Risoluzione 338 del 22 Ottobre 1973
Il Consiglio di Sicurezza,
1 - Richiama le parti al presente combattimento per cessare il fuoco e terminare immediatamente tutte le attività militari, non più tardi di dodici ore dall’adozione di tale risoluzione, nelle posizioni che occupano ora.
2 - Richiama le parti in causa affinché immediatamente dopo il cessate il fuoco inizino l’applicazione della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, in tutti i suoi punti.
3 - Decide che, immediatamente ed in concomitanza con il cessate il fuoco, inizieranno negoziati tra le parti in causa sotto i migliori auspici volti a garantire una immediata e duratura pace al Medio Oriente
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La risoluzione 338 fu emanata dall’ONU subito dopo la guerra di Yom Kippur e – cosa strana – richiamava l’applicazione di un’altra risoluzione – la numero 242 – che evidentemente gli israeliani avevano dimenticato: chissà perché questo vuoto di memoria…
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Risoluzione n. 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU
Il Consiglio di Sicurezza, esprimendo il suo continuo rammarico per la grave situazione in Medio Oriente,
Sottolineando l’inammissibilità dell’acquisizione di territori attraverso la guerra, e la necessità di lavorare per un’immediata e duratura pace per tutti gli Stati dell’area,
Sottolineando ulteriormente che tutti gli Stati Membri con la loro accettazione del Trattato hanno sottoscritto l’impegno ad agire in conformità all’articolo 2 del Trattato,
I. Afferma che l’applicazione dei principi del Trattato, richiede un’immediata e duratura pace in Medio Oriente, che dovrebbe includere entrambi i seguenti principi:
a. Ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente conflitto.
b. Termine di tutte le rivendicazioni e stati di belligeranza, e rispetto per il riconoscimento di sovranità, integrità territoriale e sovranità politica per ogni Stato dell’area e il loro diritto a vivere in pace, con confini sicuri e riconosciuti e liberi da trattati e atti di forza.
II. Afferma inoltre la necessità:
a: Di garantire libertà di navigazioni attraverso le acque internazionali dell’area.
b: Di una giusta soluzione del problema dei profughi.
c: Di garantire l’inviolabilità territoriale e l’indipendenza politica di ogni Stato dell’area, attraverso misure, tra cui l’istituzione di zone demilitarizzate.
III. Richiede al Segretario Generale di nominare un Rappresentante Speciale, per procedere all’allacciamento ed al mantenimento dei contatti in Medio Oriente con gli Stati riguardanti in ordine la promozione di accordi e per appoggiare gli sforzi per ottenere una pacifica ed accettata stabilizzazione dell’area in accordo con le previsioni ed i principi di questa risoluzione.
IV. Richiede al Segretario Generale di riferire sui progressi degli sforzi il più presto possibile.
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La risoluzione 242 fu emanata dall’ONU all’indomani delle Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando Israele decise d’annettersi unilateralmente i territori occupati.
Un preziosismo lessicale agghindava il primo punto della risoluzione, laddove si affermava che la pace in Medio Oriente “dovrebbe includere entrambi questi principi”. Un condizionale, un semplice condizionale richiesto dagli USA per approvare la risoluzione ci ha regalato decenni di guerra e decine di migliaia di morti.
Un condizionale che appare invece superato dalla risoluzione 338 (successiva), poiché lo stesso Consiglio di Sicurezza (evidentemente conscio dei rischi che la situazione conteneva in sé) s’affrettava a ricordare ciò che Israele doveva attuare, ossia: “immediatamente dopo il cessate il fuoco inizino l’applicazione della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, in tutti i suoi punti.”. La risoluzione doveva essere applicata in tutti i suoi punti, ovvero dovevano essere restituiti il Sinai e Gaza all’Egitto e la Cisgiordania alla Giordania.
Chi è, allora, che non rispetta le risoluzioni ONU?
Perché Tel Aviv è così ostinatamente aggrappata ad un territorio arido, per difendere il quale spende di più di quel che ricava dalle colonie, insomma, un non sense apocalittico?
Ci sono due ragioni che concorrono alla non soluzione del problema palestinese: la prima è di carattere economico, la seconda dottrinale.
La ragione economica è semplicissima: con lo status di “territori occupati” (non contemplato nel diritto internazionale. se non per brevissimi periodi che preludono ad un accordo di pace) Israele si è assicurata manodopera a bassissimo costo per le sue industrie e per il terziario dove non occorre specializzazione.
Migliaia di operai palestinesi varcano ogni giorno i valichi di frontiera per andare a lavorare in Israele, dove sono pagati un’inezia (in confronto alla manodopera israeliana): in aggiunta – essendo manodopera frontaliera – lo stato ebraico non deve provvedere agli oneri sociali ed al welfare per quei lavoratori. Che si arrangino i palestinesi.
E’ pur vero che ci sono delle compensazioni economiche che Israele deve versare alle casse palestinesi per questo “strano” caso di lavoratori stranieri che ogni giorno mandano avanti le industrie e l’agricoltura israeliana, ma recentemente Tel Aviv ha smesso semplicemente di versare quei fondi, affamando Gaza.
L’irrazionalità totale dell’impianto risiede proprio nel fatto che i lavoratori palestinesi – non essendo israeliani e nemmeno stranieri, perché non hanno uno stato d’appartenenza – non hanno status, o forse l’unico status giuridico che è possibile assegnare loro è quello di schiavi o di apolidi.
Le ragioni dottrinali affondano le loro radici nel Pentateuco:
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22 Poiché se osserverete diligentemente tutti questi comandi che vi do e li metterete in pratica, amando il Signore vostro Dio, camminando in tutte le sue vie e tenendovi uniti a lui,
23 il Signore scaccerà dinanzi a voi tutte quelle nazioni e voi v'impadronirete di nazioni più grandi e più potenti di voi.
24 Ogni luogo che la pianta del vostro piede calcherà sarà vostro; i vostri confini si estenderanno dal deserto al Libano, dal fiume, il fiume Eufrate, al Mar Mediterraneo.
25 Nessuno potrà resistere a voi; il Signore vostro Dio, come vi ha detto, diffonderà la paura e il terrore di voi su tutta la terra che voi calpesterete.
Deuteronomio, cap. 11, Conclusioni
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Queste sono le ragioni che inducono gran parte degli israeliani a credere che i loro confini orientali dovrebbero estendersi ancora, altro che abbandonare il West Bank.
Anche se altri profeti – ad esempio Ezechiele – affermano che il confine orientale della terra concessa da Dio al popolo eletto si ferma al Giordano, sembra che sia tenuto in maggior conto quel che è scritto nel Deuteronomio. Chissà perché.
E poi ci vengono a raccontare che l’Iran è uno stato fondamentalista.
Carlo Bertani
bertani137@libero.it
www.carlobertani.it